Si dimenticava tutto ciò. Si era già entrati in quella vertigine che spinge all'abisso.
Görgey non obbedì alle ultime ingiunzioni. Egli non partì. Al contrario, tentò di rompere le linee nemiche intorno a Comorn. L'esercito si battè tutta la giornata dell'11 luglio, senza riescirvi. Alla sera, dopo la disfatta, dovette rientrare nel suo campo trincerato. Görgey diede finalmente il segnale della partenza.
Era troppo tardi, perchè i Russi occupavano già Debreczin, e gli Austriaci Buda-Pesth. Haynau lanciò nella capitale un proclama, ove l'orribile gareggiava col grottesco. D'altra parte, Guyon aveva battuto Jellachich parecchie volte, e gli Ungheresi rioccupavano la regione posta fra la Tisza ed il Danubio. Ma Szeged, ove il Governo trasferì la sua sede, era minacciata.
Kossuth mi aveva nominato colonnello, e Bem mi chiamava nel suo esercito, riservandomi un comando. I miei voti erano esauditi. Mi posi in cammino. Avevamo ora la speranza della disperazione: perderci nel naufragio! Il naufragio ci pareva inevitabile, poichè l'acciecamento ed il tradimento s'eran messi della partita. Io era terribilmente triste. Incontravo sui margini delle strade dei gruppi di giovani, che ritornavano dall'esercito, laceri, dimagriti, terribilmente consumati dalla febbre, tremanti sotto un sole pesante, denso, giallastro, che divorava tutto ciò che toccava, agonizzanti, assetati e non avendo da bere che l'acqua limosa, verdastra e pestilenziale delle paludi. La puszta non era più quell'antico lago di 500 chilometri di diametro cangiato in prateria, che alla primavera sembrava un mare di verdura ondulante, limitato dalla gran curva del Danubio, da Pesth a Belgrado, ed il semicerchio delle montagne azzurre dei Carpazii; era un mare giallo, gonfiato qua e là da vapori bianchi, che strisciavano sotto l'aspirazione esausta del sole, - la nebbia avvelenata delle paludi, ove il toro bianco e la cavalla selvaggia degli Czikos, si trascinavano essi stessi, sonnolenti ed oppressi.
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