Una ondata di cavalieri russi piombò sopra lui, e sommerse i suoi compagni. Il suo cavallo, un diabolico tarkas della Puszta, partì con un salto di fianco, e lo trasportò traverso uno spazio ch'esso vide solitario. Ed era solitario per una buona ragione. Quello era uno stagno, coperto da una lanugine traditrice di erbe marcite, che prendevano la forma del terreno ove l'erba tentava di crescere. Il cavallo fece ancora alcuni passi sopra quella voragine di fango, aderente, tenace, viscoso. Pareva volare anzichè camminare, perchè sentiva il suolo venirgli meno sotto i piedi. Petöfy provò di farlo tornar indietro, ma lo slancio era preso. Egli penzolava già sopra una specie di vortice, che si sarebbe detto bollisse, tanto la melma si ingolfava con precipitazione nelle fessure del suolo. Io gettai un grido di spavento.
Petöfy volse il capo, e mi rispose con una specie di sorriso orribile. Egli scendeva già nell'abisso. Il cavallo si dibatteva dalla stretta formidabile del fango. Ma più egli si sforzava di sollevarsi, più scavava il vuoto che lo aspirava, più ingrandiva il buco da cui era inghiottito. Petöfy si rizzò sul corpo del cavallo, già quasi scomparso. Sperò per un momento che la sua cavalcatura colmasse la fessura della palude. Illusione della speranza! Derisione del destino! L'uomo che aveva vissuto di raggi, doveva morire soffocato nella melma. Lo vidi scendere, scendere sempre, immergersi fino a quel petto ove batteva un cuore così generoso e così eroico, fino alla testa ch'egli portava sì alta, malgrado il peso del pensiero, sotto l'aureola del genio!
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Puszta
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