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      Cavò il suo kepì, senza avvicinarsi. Sentii sdilinquirmi nel cuore. Stesi le braccia verso di lui: la kibitka partì come una freccia. E mia madre? Pensai che la nobile donna si fosse offesa del mio rifiuto di suicidarmi e mi tenesse il broncio. M'ingannavo. Rannicchiata dietro l'angolo di una casa, mi vide passare, e svenne.
      La mia lotta cogli uomini era finita, io andava a principiare una lotta col destino.
      Dico il destino, poichè per gli uomini, dai miei gendarmi fino al governatore generale della Siberia, io non era più un individuo, ora, ma un oggetto pericoloso. Essi erano la forza, io non era più una volontà; io doveva dunque subire, come un corpo inerte, le leggi di gravitazione di tutto il sistema dello czarismo.
      Viaggiavamo colla rapidità di 14 chilometri all'ora, che aumentò, anzi che diminuire, fino a Nertscinsk.
      La mattina era splendida e calda; tutto sorrideva e cantava. La tensione straordinaria delle mie facoltà, da un mese in qua, si rallentò tutto in una volta, ora che la mia sorte era fissata. Mi accasciai per istanchezza, come un pallone che si sgonfia. Poco disposto naturalmente a conversare, non trovando nulla d'affabile nei miei gendarmi, la cui fisionomia stupida mi urtava; vinto che non si rassegna e che perciò si raccoglie in sè stesso, chiusi gli occhi, e mi addormentai, tessendo nel mio spirito tutto un piano di resistenza legale e di rivolta, se l'occasione mi avesse favorito. La natura esterna, in questi primi giorni di vita interna o di abbattimento, non ebbe alcuna presa su me.


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Le notti degli emigrati a Londra
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano
1872 pagine 346

   





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