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      Cessai d'allora di essere un individuo, e non fui più che il numero 367.
      All'indomani mi condussero alla miniera.
      I pozzi della miniera erano in un precipizio della montagna, uno screpolo perpendicolare, largo un chilometro ed alto duemila piedi. La state, una magnifica cascata, prodotta dalla fusione delle nevi dei Yablonoi, metteva in movimento una ruota idraulica al servizio della miniera. L'inverno, quella cascata si cangiava in una gittata di cristallo sulle pareti grigie e rossastre della roccia. La fessura della montagna aveva delle asperità, ove si accoccavano dei ciuffi di lichene, degli arbusti e degli albericciuoli, che, l'inverno, assumevano l'aria di sgorbi geroglifici sur un foglio di carta bianca. Il vertice della montagna restava accappellato di neve tutto l'anno; gli spaldi, coperti di abeti e di betulle, prendevano per quattro mesi un bell'ornamento verde cupo. Ora, di già ottobre, l'inverno era cominciato, la neve era caduta, il vento soffiava: non più foglie, nè erba, nè uccelli; un sole squallido e freddo, che si coricava alle tre e mezzo; un cielo sovente splendido, la notte, chiaro il giorno, ma rischiarando poco; o l'uragano di neve, che polverizzava ed aguzzava ad aghi la brina della vigilia. Una tristezza infinita succedeva ad una fatica snervante.
      Io aveva visitate, nei miei viaggi, le miniere dell'Inghilterra, del Belgio, dell'Allemagna, perocchè io aveva studiato la geologia e la mineralogia. Non avevo fatto, del resto, che studii utili - e perciò molto poco di scienze morali e punto di metafisica.


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Le notti degli emigrati a Londra
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano
1872 pagine 346

   





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