Erano le otto del mattino, quando misi il piede sul primo piuolo della scala del pozzo. Le poche lucerne, che fumigavano nei buchi del muro, servivano a constatare, anzi che rischiarare le tenebre. Sul mio capo, delle ombre che si sprofondavano nel baratro; sotto i miei piedi, degli spettri, ai quali la poca luce, che filtrava dall'alto, esagerava i cenci selvaggi e le proporzioni difformi. Ciascuno si vestiva di ciò che poteva; di brani di pelle di vitello marino o di montone, di lembi della casacca del galeotto. I sembianti erano divenuti orridi. Ogni compagnia era seguita dal suo caporale, armato di scudiscio. Queglino che avevano raggiunto il fondo del pozzo lavoravano già, ed io udiva i colpi del martello, il rumore metallico del punteruolo risuonante sulla roccia. La banda, di cui io faceva parte, si fermò ai tre quarti della scesa, ad una galleria traversale che si prolungava.
Si lavorava già ad un pozzo interno scavato nel filone. Si praticava un buco di mina, battendo l'un dietro l'altro sullo scalpello, cui un terzo minatore sosteneva. Il macigno era duro, e scintillava sotto l'addentar dell'acciaio. In una galleria vicina, si trasportava il minerale abbattuto fino al sito dell'estrazione. Il luogo era schiarato appena. L'aria mancava, e la respirazione ne soffriva. Benchè più calda che alla superficie del suolo, l'aria era ancora pizzicante e viziata in quel dedalo inestricabile, ove si affondava e circolava. Il terreno, che scavavamo per profondar le gallerie, si sbricciolava, quando non incontravamo il piperno: quindi due pericoli, due catastrofi, che si rinnovellavano ogni settimana - degli sfondamenti imprevisti, talvolta provocati a disegno, che sotterravano i minatori; ovvero l'esplosione a contratempo di un cavo di mina, che li acciecava, li sfigurava o li uccideva.
| |
|