Credevo sognare. Quando la sera rivenni alla superficie della terra, presi a dimandarmi se non avessi avuto delle lunghe ore di delirio. La febbre mi assalì. La notte non potei chiuder palpebre. Per ventura, uno dei miei compagni della yurta era anch'egli condannato politico - un Russo, che da Minusink avevano trasferito a Nertscinsk per punizione, e che vi era giunto appena da una settimana. L'altro coabitatore della yurta era un brigante Tonguso, il quale aveva rubato ed ucciso. Nessuno dei due non aveva avuto ancora il tempo di costruirsi una capanna, ed il Governo li alloggiava nelle sue yurte.
A capo di una settimana, la disperazione s'impossessò di me. Non avevo più forza per lavorare, meno ancora per intraprendere la mia evasione. Udivo la frusta del caporale sibilare alle mie orecchie, e non mi riposavo mai onde non essere battuto; ma ciò accelerava la mia morte. Non mangiavo più. Il sangue mi si agghiadava nelle vene. Risolsi finirla.
Lavoravo da tre giorni a scalzare un macigno. Mi proponevo di allogarmivi sotto, quando cadrebbe, e lasciarmi schiacciare. Due giorni ancora di lavoro, ed acquistavo la libertà! Io scavava dunque con una specie di rabbia tutto il dì. Una fibra della mia vita se ne andava ad ogni colpo di zappa, ma io persisteva. Ciò mi spossò. All'indomani, non potei più levarmi. Il medico, chiamato dal mio compagno russo, venne. Avevo febbre e delirio. Mi fece trasportare allo spedale.
Quando ripresi i sensi, quarant'otto ore dopo, mi trovai in uno stabilimento in legno, disposto a guisa di interiore di nave.
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