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      Ogni cabina conteneva dieci malati, cacciati entro scanzie, basse e strette, sovrapposte l'una all'altra, non lasciando fra le due file che lo spazio necessario al passaggio di un uomo. Impossibile di dar volta su quelle nude panche; il compartimento superiore schiacciava quello di sotto. L'oscurità vi era quasi completa; l'aria putrida. I meno ammalati assistevano gli agonizzanti. Il medico non osava penetrare in quel carnaio; i forzati convalescenti rinculavano dinanzi l'officio di infermiere. Mi sentivo morire. Rinvenni nei sensi però, come qualcuno a cui si fa respirare un alcali in uno svenimento. Apersi gli occhi, cercai ricordarmi, riconoscermi, ritrovarmi; potei infine distinguere gli oggetti in mezzo a quella notte.... Orrore! Sopra due degli scaffali di contro a me, giacevano due cadaveri in putrefazione. Mi lasciai cadere dal mio giaciglio, e mi trascinai, a carponi, all'aria libera, deciso di morire sotto la mia yurta come un cane, anzi che sapermi sotterrato vivo in quel sepolcro omicida. Per fortuna, il mio Russo, Clemente Balardine, veniva a visitarmi. E' mi raccolse, e mi portò nella yurta....
      Tre settimane dopo, ritornavo alla miniera. Il capitano, vedendomi sì magro e pallido, mi collocò in una compagnia che lavorava al di fuori, alla trazione del minerale. Quel capitano era al postutto un bravo uomo, malgrado le apparenze severe e rigide: era anzitutto giusto.
      - Chi diavolo ha potuto mandarvi a crepar qui, mi disse egli: che delitto avete voi commesso?
      - Sono polacco, risposi io.


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Le notti degli emigrati a Londra
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano
1872 pagine 346

   





Russo Clemente Balardine