Di vita, punto. Senza la demenza degli elementi ed il guaito delle foreste, un silenzio assoluto ci avrebbe circondati. Le belve stesse tacevansi, di disperazione forse, forse per non dare l'allarme alle prede, che esse cacciavano con rabbia e non trovavano. L'orso e l'aquila, assiderati, restavano in uno stato letargico. Il volo dei rari uccelli era corto, trascinantesi, timido. Il corvo solo ci seguiva pesantemente, lentamente, lasciando dietro a sè un trascico di vapore, che si allungava come un filo. Infine, dopo parecchi giorni di viaggio, sboccammo nella Yndighirka, al punto ove la si confonde con la Moma.
L'immersione, o piuttosto la discesa da una corrente d'acqua in un'altra, fu penosa. All'imboccatura dell'affluente eravi una barra di rocce, che formava una cascata di otto o dieci metri di altezza. L'acqua gelata e la neve soprapposta cangiavano la cascata in un piano inclinato assai rapido, per non dire a picco. Fu mestieri distaccare le renne e farle saltare a parte, poi alleggerire la slitta e farla scivolar giù, ritenendola per di dietro con le corregge delle renne; poi operar la discesa, o piuttosto lo sdrucciolo, di Cesara, il mio e quello di Metek. Ciò ci prese lungo tempo, ma ci procurò un ricovero per la notte. Noi eravamo come al fondo di un pozzo, salvo il corso immenso della riviera, che si apriva dinanzi a noi come un viale a perdita d'occhio. Il vento, che spirava in questo corridoio di granito, era intollerabile. Dico corridoio, perchè le due sponde del fiume erano bastionate di rocce merlate.
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Yndighirka Moma Cesara Metek
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