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      E' si allogò all'ingresso della tenda, e la sbarrò.
      Metek assicurò che l'orso erasi oramai affezionato a noi, e che non si avviserebbe a riprendere la libertà. Non pertanto, siccome esso era la nostra vita, così decidemmo che Metek lo sorveglierebbe, mentre io dormiva, e che alla mia volta, io gli terrei compagnia, mentre che Metek sonnecchierebbe. Ciò fu fatto.
      Il dì seguente riaccendemmo il fuoco, facemmo colazione, demmo un pezzo di renna al nostro amico, cui io battezzai col nome di Czar, e partimmo. Lo Czar lasciossi carezzare da Cesara, lasciossi attaccare alla slitta, senza la minima dimostrazione di cattivo umore, e si mise a trottar gaiamente, non avendo bisogno di essere toccato dallo zenzero. Viaggiavamo con una celerità media di dodici chilometri all'ora.
      Percorrevamo una pianura interminabile, qua e là interrotta da qualche collina. L'intensità del freddo cresceva. Certo, se avessimo avuto un termometro, esso avrebbe segnato 40 gradi sotto lo zero. Metek non cessava dal batter i denti: Cesara ed io ci sentivamo colpiti dal mal del ghiaccio. Respiravamo di tempo in tempo, come di soppiatto, un boccon d'aria fresca, che ci increspava il petto con la crepitazione della tela che si lacera, e provocava un impeto di tosse insopportabilmente doloroso. Nessuna parte del nostro corpo restava esposta per un minuto solo al contatto dell'aria. Gli occhi s'injettavano di sangue. La slitta procedeva, avviluppata in una densa nuvola piombacea, proveniente dalle nostre esalazioni animali.


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Le notti degli emigrati a Londra
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano
1872 pagine 346

   





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