La neve, restringendosi, scricchiolava, ed i fiocchi leggerissimi di vapore, prodotti dallo sprigionamento del suo calorico, si trasformavano in una miriade di pagliuzze ghiacciate che scoppiettavano nell'aria. I laghi gelati, sui quali volavano, erano numerosi e prossimi. Il ferro che toccavamo, bruciavaci le dita peggio che se fosse stato rovente; non potevamo servirci pių dell'accetta, che sarebbe andata in frantumi al minimo uso.
Arrivammo cosė, dopo parecchi giorni di marcia alternati di riposo, ai pič dei monti, che chiudono all'ovest la vallata della Kolima.
Non avevamo nč carta della Siberia, nč bussola, nč alcuno strumento per dirigerci. Metek possedeva una memoria locale sorprendente, ed e' trovava la via, esaminando gli strati di neve, che il vento forma, spirando nella medesima direzione - ciō che la gente del paese chiama la zastruga - , ovvero osservando la corteccia dei larici, la quale, in tutta la Siberia, č nera dal lato nord e rossastra da quello del mezzodė. Stavamo per intraprendere l'ascensione di un'erta montagna, da quella parte della catena degli Stanovoi, che termina, traversando le tundras, allo stretto di Behring. E' fu dunque mestieri ora scalare o girare enormi massi, esponendoci ad ogni istante a scivolare nei precipizi, ora a varcare crepacci colmi di neve, nei quali talvolta affondavamo, ora aprirci la via con delle pale. Volgemmo la montagna a mezza costa, attraverso un selviccio di pini sparuti. Ma, spuntando sul versante orientale, un colpo di vento, spruzzando dall'imo degli abissi come un milione di razzi, ci prese di assalto.
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