- Faccia a terra, gridò Metek, che ci apriva la strada, dandoci l'esempio.
Noi ci lasciammo cadere l'uno accosto all'altro, col viso contro l'immensa stesa di neve. Qualche minuto dopo, eravamo seppelliti. Per avere un po' di aria e respirare, elevavamo il braccio alla superficie dello strato di neve che ci copriva. Quando il fardello diveniva troppo pesante, noi ci sollevavamo di un grado. Faceva caldo. Udivamo stridere sul nostro capo come milioni di seghe di giganti, che addentassero il granito. Impossibile dire o far intendere una parola. Ci toccavamo la mano, sotto un metro di neve, per farci de' segni. Ciò durò sette o otto ore. Quando il turbinio si acquetò, noi uscimmo dalle nostre tane, ed il freddo intenso che incontrammo alla superficie, all'aria aperta, c'irrigidì di un colpo come una verga di acciaio. Ci rimettemmo in cammino per ripigliare un po' di calorico; ma il cuore era più ghiacciato ancora che il corpo.
Facemmo così cinque verste; poi Cesara cadde sulla neve. Cercammo un ricovero sotto un cespuglio di spine, ed a forza di grattare, sbarazzammo il sito fino alla superficie del suolo: vi posammo la nostra lamina di rame, secondo il solito, ed accendemmo il fuoco. Il caldarino, pieno di neve, cantò; il pemmican ci offrì un brodo rifocillante. Ma come passare la notte? Non avevamo più la tenda. Scavammo, dietro un ciuffo di pini nani, un tunnel sotto la neve, assicurandoci bene ch'essa era solidamente gelata, affinchè la vôlta non ci cadesse sopra; poi ci calammo sotto quell'arcata, a mo' dei Samojedi, coi piedi verso il fuoco, bene avvolti nelle nostre pellicce.
| |
Metek Cesara Samojedi
|