Coricato supino durante tutto il tempo che non restavo seduto per pranzare, io contemplava, a traverso i buchi del soffitto, il cielo eternamente e monotonamente azzurro.
Il nostro pranzo ordinario si componeva di un montone o di un piccolo vitello infilzato allo spiedo, cioè a dire ad un ramo d'albero acuminato. Gli ex-briganti, divenuti cittadini, difensori della legalità e della Carta, erano i nostri cucinieri, i nostri guerrieri, le nostre cameriere, i nostri domestici. Gli altri contadini sembravano stupidi. Non ebbi affatto l'occasione di sperimentare se erano buoni ad altra cosa.
Un giorno, verso le cinque della sera, le nostre bande manipolavano la loro cena, quando, tutto ad un tratto, si spande il rumore che il generale Du Carne ci prendeva ai fianchi.
Il nostro comandante in capo aveva tutto previsto per custodire la porta; non si era punto curato delle finestre. Ora, i realisti, avendo convenevolmente divorato il paese fedele, sguizzavano adesso per i fianchi e venivano a ficcare il naso nelle nostre pentole. Vedendo che il nemico penetrava per Normanno e per Torraca, alla nostra destra e alla nostra sinistra, noi trovammo che il nostro mestiere diveniva una sinecura, e lasciammo degnamente il posto.
Forse lo lasciammo un po' al passo accelerato. Ma ciò è un affare di ginnastica. Forse avremmo dovuto difenderci. Non ci si pensò guari: non si può pensare a tutto; e d'altronde, perchè incomodarci? Il fatto è che noi partimmo. Io fui, per pigrizia, uno degli ultimi a sloggiare, con i preti e i cappuccini, che facevano parte della colonna rivoluzionaria.
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Carta Du Carne Normanno Torraca
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