I suoi grandi occhi riflettevano il cielo ed avrebbero rischiarato la prigione di Ugolino.
- Andiamo a cercar l'accetta e atterriamo la porta, urlava la plebaglia rigenerata.
- Insomma, dissi io ad Alberto, dimanda a codesti bravi cittadini, che diavolo vogliono e per chi mi piglian dessi!
Alberto ripetè la domanda. Il giudice, scegliendo l'accento più ufficiale, dichiarò che io era il generale Ribotti, e che era suo dovere impedire la conflagrazione del regno.
- Non si tratta che di ciò? gridai io, tirando da parte Alberto e suo padre e mettendomi alla finestra a mia volta.
Poi, indirizzandomi a quell'onesto pubblico ed al suo organo officiale:
- Tu la pigli grossa, sclamai, cioè, voi v'ingannate, signor funzionario. Il general Ribotti, a quest'ora, digerisce, fuma, beve e se la batte in ritirata con i nostri valorosi fratelli di Sicilia. Io sono il marchese di Tregle, deputato al Parlamento e mi reco alla Camera.
- Voi andate dunque alla Camera per le vie scorciatoie? osservò l'arciprete della Comune.
- Vegliardo, risposi io con prosopopea, imparate che tutte le strade sono buone, quando conducono l'uomo a compiere il suo dovere. Io mi reco alla Camera... erborizzando per le vostre montagne.
- Ah! voi fate della botanica in assisa d'insorto!
- Oh che? andreste per avventura a cercarmi taccole adesso sul taglio e la moda del mio abito? Augusto vecchio, apprendete che questo qui è proprio l'uniforme dei membri del Parlamento della regina Vittoria.
- Ohibò! ohibò! egli è il generale Ribotti; lo si conosce, lo si è visto.
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