E' vide le sue facoltà, la sua forza, la sua intelligenza, stritolate, annichilite: la polizia ed il clero gli rubavano tutto ciò che Dio gli aveva prodigamente largito. Gli si lasciava unicamente il diritto di mendicare e di morire.
Rientrò in casa e non disse nulla a Bambina. Delle idee sinistre gli ottenebravano la mente. Ei non poteva neppure sbarazzarsi interamente delle sue spoglie di prete e farsi cantabanco, giocoliere: doveva restare e crepare sotto la corrosiva bardatura.
La sera Don Diego cercò il viglietto di introduzione che il capitano Taffa gli aveva dato per suo fratello, capo di ripartimento, passato pocanzi dalla polizia al culto. Quest'ultima speranza però riluceva appena. Si recò, malgrado ciò, dal barone di Sanza e gli raccontò la sua conversazione col commissario.
- Ma, già! sclamò il giovane, gli è così, ed essi han ragione. Ciascuno per sè. Ebbene gli è giustamente questa rete infame di prete e di sbirro, la quale avvinghia la società, che trattasi di tagliare. Ci pensate voi sempre?
Don Diego sorrise ed uscì.
V.
L'entrata nella vita civile.
Don Domenico Taffa, capo di dipartimento al ministero degli affari ecclesiastici, come dicevamo testè, toccava un mensile di cinquanta ducati - 180 lire gravate di ritenute. Egli dimorava al terzo piano di una bella casa alla salita di Magnocavallo, il quartiere elegante della ricca borghesia, e pagava 2500 lire l'anno. L'appartamento, vasto, ben aerato, lindo e gaio, mobigliato con ricercatezza: del palissandro, - allora prezioso ancora, - cortine di seta, tappeti, porcellane, quadri, una bella biblioteca, dei bei cristalli, degli specchi dovunque.
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Il re prega
Romanzo
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano 1874
pagine 387 |
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