Grazie. Io amo i lottatori.
- Vostra Maestà può contare sulla mia indipendenza, rispose Don Diego con modestia. Io era napolitano ed italiano innanzi essere prete e vescovo.
- Io non gradisco quel gergo, monsignore. Indipendenza! Italiano!.... cosa è codesto? Voi siete suddito: ecco tutto.
- Sire, replicò Don Diego, ecco precisamente ciò che il pontefice mi ha detto: Voi siete suddito del capo della Chiesa avanti tutto: ricordatevi di ciò! Ebbene, come vescovo, io non sono suddito di alcuno. Io non dipendo che dalla mia coscienza.
Il re lo squadrò da capo ai piedi con uno sguardo freddo e scosse la cenere del suo sigaro. Egli aspettava forse un'attenuazione alla professione di fede del vescovo.
Questi si tacque e si restrinse ad ascoltare l'interrogatorio reale. Ferdinando dimandò:
- Avete detto la messa, monsignore?
- No, sire.
- Siete ancora digiuno?
- Maestà, sì.
- Siete preparato?
- Io lo sono sempre, osservò Don Diego contraendo un pochino gli angoli della bocca.
- Voi andrete dunque a celebrare nella mia cappella. Io non ho ancora udita la messa.
- Ai vostri ordini, sire.
Il re diede l'ordine ad un maggiordomo e Don Diego fu condotto nella cappella del Palazzo. Un quarto d'ora dopo, il vescovo del diavolo era all'altare, ed il re, la regina e tutta la loro nidiata erano nella tribuna.
La messa andò per treno express. Quando S. M. si alzò, al vangelo, i suoi sguardi caddero sul conte di Altamura inginocchiato alla porta della tribuna reale. Ferdinando gli fece un piccolo segno cogli occhi.
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Il re prega
Romanzo
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano 1874
pagine 387 |
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Maestà Don Diego Don Diego Chiesa Don Diego Don Diego Palazzo Altamura
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