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      La forza sociale è attaccata al possesso della terra. Il capitale mobile vi è nello stato d'infermità e quasi d'intruso, perché il governo ne ha tarpato ogni slancio, ovvero con savie provvidenze non ha curato mai dargli una vita energica ed attiva. Perciò poca industria e quasi nessun commercio; perciò una subordinazione violenta allo straniero, il quale, quando non ha potuto dominarci con la spada e con la verga, ci ha dominati con i trattati: in guisa che quando finiamo di essere schiavi ci troviamo coloni. La ricchezza del paese quindi, essenzialmente agricola, è concentrata in poche famiglie e qualche corpo morale, i quali formano un'oligarchia, fortunatamente non assai compatta, perché sottoposta di continuo, per la paura del governo, all'azione dissolvente di quell'atroce e volgare massima di stato: divide et impera. Questa oligarchia si guarda torva e sospettosa, ed è penetrata ancora del formalismo iberico che la informa della sua superba barbarie, e neutralizza tutta la forza demolitrice del secolo XVIII. Questa oligarchia elevata a principio, ha rimpiazzata l'antica feudalità, e più trista, più avida, più inesorabile poiché è l'aristocrazia dei pervenuti, e perché accoppia all'istinto dell'usuraio le pretensioni del gran signore. Non vi è piccola città, non vi è piccolo contado o borgata che non abbia uno o due di queste incarnazioni di delitto, tra loro nemici, nemici a tutti. E le disegno col nome di delitto incarnato, perché le loro ricchezze non sono di ordinario frutto di nobile lavoro cumulato, ma prodotto veloce di qualche immondizia sociale, come usurpazione dei beni municipali, servizio occulto renduto alla famiglia borbonica nei giorni dei suoi rovesci, usure, furti nelle sventure delle rivolte, o altre sordidezze le cui tradizioni non sono cancellate nei nipoti, benché commesse dagli avi.


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La rivoluzione di Napoli nel 1848
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
pagine 212