Questa messe terribile avrebbe forse spaventato qualunque altro uomo, ma Delcarretto accettò la sfida e cercò rivolgerla a suo profitto. Egli si era trovato sempre sulle trincee quando un Borbone aveva avuto bisogno di un essere a tempra spietata per percuotere senza viscere e consumare come l'incendio. Egli aveva comandato lo sgozzamento in massa del Cilento, ed aveva tirato l'aratro e seminato il sale su parecchie borgate: egli aveva ordinato il massacro di Palermo, le proscrizioni di Aquila, le fucilazioni di Cosenza. Dovunque vi era sangue a versare e terre a distruggere, Ferdinando lo investiva dei suoi istinti con un alter ego e lo mandava. La sua natura, composta di tutti gli eccessi, si esilarava nelle scene le più infami. Niente lo arrestava se non la soddisfazione; niente lo soddisfaceva se non l'abnormale e l'orribile. Egli aveva trovata la poesia nel delitto. Però alla necessità del sangue che metteva in orgasmo le sue fibre e destava per un istante una vita sciupata per diciotto anni in ogni maniera di dissolutezze, in ogni maniera di arbitrii, di libidini, di delitti, le specialità di Margherita di Borgogna non escluse, a tutta questa epilessia di enormità subentrò l'ambizione. Con i suoi eccessi aveva accelerata la rivolta, voleva compierla. Perciò non sentì egli l'ambizione che lo avea dominato fin allora, cioè quella del servo che si vuol rendere aggradevole al suo signore; non quella dell'uomo probo che vuol salvare il suo paese e colui che gli ha confidati i suoi destini; ma l'ambizione di un pretoriano che cerca finirla con un padrone stupido e vile; ma l'ambizione di un satrapo che anela soppiantare il suo signore; l'ambizione di un Cromwello senza genio e senza principii; l'ambizione di un Robespierre volgare, la velleità forse di una seconda edizione di Espartero.
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