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      Non pertanto si consentì ritirarsi ed aspettare per altri due giorni la provvidenza della borbonica munificenza. Statella, ritornato a palazzo, dipinse foscamente al re la situazione minacciosa del paese. Disse che la città intera era concorde in domandare uno Statuto; che se si adoperava la forza, l'esito era dubbio, sopra tutto perché potevano essere schiacciati dalle ostilità che avrebbero incontrato dalle finestre: che le più accanite erano le donne: che la gioventù aveva a sangue freddo bravata la morte: che non era più tempo di resistere: che bisognava appigliarsi ad un partito, e che egli inclinava per la pace. Il re, maggiormente sconcertato dalle parole che il generale tuttavia sotto l'influenza dello sguardo e della pressione popolare, senza cortigianeria e con molta energia diceva, il re domandò respirare, riflettere un giorno ancora, consigliarsi; pari ad un condannato chiese grazia al messaggiere del popolo. La sera il consiglio di Stato si riunì. Il re udì tutti, pesò tutto, accolse tutti i pareri e tutti i propositi, ma senza palesare, anzi senza neppure far trapelare il suo voto, sciolse il consiglio. Indi si ritirò col marchese di Pietracatella, col cavaliere Fortunato e qualche altro suo fedel servitore, e cominciarono a deliberare. Qualche ora dopo un messo andava ad annunziare al marchese Delcarretto che era novellamente desiderato dal re.
     
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      16. Questi si era ritirato in sua casa con l'anima oppressa dal dubbio e dilacerato dalla rabbia. Il re non gli aveva rivolta neppur una parola, neppure uno sguardo: aveva ascoltato freddamente le disperate misure che egli divisava di prendere.


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La rivoluzione di Napoli nel 1848
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
pagine 212

   





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