Si credette perduto: solo non sapeva fino a quali estremi la sua disgrazia sarebbesi spinta. Egli non vedeva oramai che due strade di salute; o vendere il re al popolo, distruggendolo, e mettendo a compimento i suoi delirii di seguir le tracce di Bonaparte, facendosi anch'egli dichiarar primo console, ovvero con le crudeltà sue consuete e con i mezzi più disperati, gettarsi sul partito liberale per percuoterlo ed annullarlo, facendo valere di guarentigia le tirannie nuove alla fedeltà attiepidita. Ed all'uopo aveva già mandato a chiamare i suoi sgherri senza anima, Morbillo e Campobasso; già preparava per la gendarmeria gli ordini più arrischiati e furibondi, onde dare addosso a tutta una città. Il messo del re lo rassicurò. Non pertanto fece prima scomparire buon numero di carte, altre ne mise in ordine, poi si rese alla corte: arrivato alle sale domandò del re. Gli fu risposto, sedere in consiglio. Si avanzò per entrare; ma il ciamberlano glielo impedì. Avvampando di sdegno stese la mano sull'uomo che gl'impediva di varcar la soglia, protestando con voce grossa ed irata, che come ministro aveva diritto di entrare e che niuno poteva tenergli il passo. Allora il general Filangieri uscì e con sorriso freddo ed ironico gli disse: voi non siete più ministro. Esterrefatto, ma incredulo ancora, Delcarretto osò profferire altere parole: ma, al piglio severo e fermo del generale, quella paura che altrui aveva per sì lungo tempo ispirata penetrò nel suo cuore; e cangiando di un tratto linguaggio, implorò per favore vedere ancora una volta il suo adorato sovrano, avendo gravi cose a comunicargli.
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