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      Era assai miserabil cosa bocconcellare in parti più distinte ancora le provincie d'Italia, quando era mestieri lavorare a fonderle in una. L'Italia non faceva un'altra rivoluzione per avere dei napolitani, dei siciliani, dei lombardi, dei romani più o meno liberi, più o meno rapprossimati; ma per avere italiani, per elevarsi nel consenso dei popoli e dire: sono anche io!
      La rivoluzione aveva levata un'altra volta la grande quistione di Amleto, essere, o non essere affatto. Le utopie imitative, le nostre ire meschine e la ripetizione di diritti più meschini ancora, le tradizioni del medio evo, le inquiete gelosie municipali hanno spalleggiata l'efficacia dell'Austria e risoluto il problema. Chi ardisce negare che l'Italia non sia ancora un'espressione geografica? La lezione crudele ci giovi almeno in qualche cosa. Le sventure dei siciliani non trovarono a Napoli simpatia in alcuno. I realisti avevan veduta nella loro rivolta una violazione di proprietà: i costituzionali una gara dinastica: i radicali un attentato alla sovranità italiana: tutti ne prevedevano l'esito con proporzioni più o meno piccole, quantunque niuno intravedesse la meschinità con cui la lotta fu terminata. L'ostinazione dei siciliani fu trovata inconseguente ed intempestiva. Inconseguente, perché essi con la loro fedeltà avevano conservata la sovranità della casa di Borbone, l'avevano ristorata dei loro danari, e per due volte rimandata su Napoli come un flagello di Dio, come la peste: intempestiva, perché era quello invece il momento di richiamare alla ragione i napolitani, che perfidamente sviavano, ed agir di concerto o a sgabellarsi affatto del principato, o annullarne presso che intera la forza.


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La rivoluzione di Napoli nel 1848
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
pagine 212

   





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