Tutti allora compresero che i radicali, col loro panteismo politico, non domandavano mica utopie, e che la repubblica era la idea e lo scopo della rivoluzione novella, la quale reintegrava la società espropriata nel possesso di tutte le attribuzioni del potere. I fatti di Francia sbigottirono Ferdinando e l'aulico consiglio. Essi avevan ceduto alle richieste della nazione, ma speravano un giorno o l'altro tutto ritoglierle, facendole pagar caro, come successe, la petulanza del domandare. Speravano nell'accorgimento del re Volpe e del suo abile e tristo ministro: speravano nel fiero e satannico despota di Austria. Ma quando l'un dopo l'altro li seppero gittati nel fango in un solo soffio dell'ira del popolo; quando videro che la forza fittizia del despotismo si smascherava ed appariva in tutta la lurida sua decrepitezza; allora atterriti, offuscati si affrettarono ad obbedire ai voleri del popolo, e da padroni traditori divennero servi vigliacchi. Avrebbero voluto contentare, obbedire a tutti in un istante medesimo. Perciò si cadde nell'eccesso opposto. E la plebeità e la fiacchezza in un governo sono due mali non meno pericolosi dell'arroganza e della tirannia. Intanto la legge sulla guardia nazionale fu tradotta e pubblicata: e quindi a poco tradotta e pubblicata anche quella per le elezioni. Queste leggi scontentarono tutti. Il principio aristocratico del censo vi era mantenuto: l'aristocrazia vera, l'aristocrazia dell'intelletto dimenticata. Non eran bastati gli sperimenti della Francia: il famoso pubblicista napolitano, che nulla sapeva concepire da sé, le sottometteva anche alla pruova d'un popolo italiano.
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