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      Per essa vi voleva qualche cosa di più che la forma, l'anima; qualche cosa di più che la libertà, la nazionalità. Dilacerata in sette brani, essa voleva ricomporre il suo mantello imperiale. Il lauro di Cesare sulla testa di un barbaro era un oltraggio all'iniziativa d'incivilimento che l'aveva contraddistinta nei secoli passati. Voleva tornare a riporselo sul capo, rialzandosi regina e donna di sé. Era stanca di quei proconsoli austriaci che rosicchiavano la penisola. E papi e re erano un impaccio alla libertà, un soporifero alla civiltà. L'idea d'indipendenza quindi, l'idea di unità si elevarono sfolgoranti sull'orizzonte della rivoluzione, e ne formarono tutto il programma. Questi due grandi bisogni correvano ad una soluzione. La buona fortuna era per allora di Carlo Alberto che, di casa italiana, combattendo per la nazionalità italiana, cominciava ad aggruppare intorno a sé i brani differenti d'Italia. I Ducati, il Lombardo, il Veneziano erano a lui; per lui caldeggiavano i siciliani e ben tosto gli si davano; a lui la simpatia di tutti gl'italiani, i quali, se la fortuna lo avesse favorito, non avrebbero certo domandato di meglio che avere un signore glorioso e guerriero, se d'uopo era ancora di averne uno. La decadenza morale, che gli veniva per controcolpo, atterriva il Borbone. Il giorno del suo bando approssimava a misura del rinculare dell'Austria innanzi alle armate italiane. Egli scendeva tanto più basso quanto più sfolgorante la stella della casa di Savoia s'innalzava.


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La rivoluzione di Napoli nel 1848
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
pagine 212

   





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