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      La giovane Camera, naturalmente suscettibile delle sue prerogative cui vedeva violare fin dal suo nascere, non rassegnossi a portare questo peccato di origine, dichiarando la sua minorità, ed abdicando col primo suo atto. Dall'assemblea alla corte messaggi sopra messaggi andavano e venivano, senza nulla conchiudere, anzi la dignità e la sovranità dei rappresentanti compromettendo. Il re teneva al giuramento ed alla sua formola. La voce della dissensione provocata da un obbietto così cardinale si propagò per tutta la città, e tosto una convulsione morale comprese tutte le classi. Dovunque era un formar di circoli. Nei caffè, nei crocchi, nelle piazze, i cittadini si arrestavano per interrogarsi, si conoscessero o no; il fremito era generale, completo. I giovani fra gli altri, i radicali, si assembravano per deliberare a loro volta: la patria fu dichiarata in pericolo. Lungo la strada Toledo quanto la città aveva di virile e di nobile si riunì. Stretti in massa, animati da un principio, senza concerto preso, si diressero verso il luogo dove l'assemblea sedeva. E generale della guardia nazionale, Gabriele Pepe, uomo intero, libero, ma oramai di mente infiacchito, alcuni uffiziali superiori della guardia stessa, si opposero all'imponente massa, e la pregarono di sciogliersi, per non riscaldare ed appassionare vieppiù una disputa oramai calda troppo. La scongiurarono in nome della libertà del paese e dell'Italia a non pregiudicare alla libertà di azione del Parlamento. Promisero che tutto si sarebbe dignitosamente conciliato; che l'assemblea non avrebbe corso alcun rischio; che la guardia nazionale si sarebbe messa sotto le armi.


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La rivoluzione di Napoli nel 1848
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
pagine 212

   





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