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      Quei soldati avvezzi al suono della voce del re come un cane a quella del padrone, temperati ad una natura novella con i principii dell'obbedienza cieca ai capi, ignari perfino che innanzi al dovere del soldato sta il diritto del cittadino, e che sopra il tristo villaggio natale, come una cattedrale superba, si eleva l'Italia; quei soldati furono sedotti dagli uffiziali. A costoro, in nome del re, larghe promesse facevansi dal commissario che li andava a chiamare. Ed essi, che erano in un numero maggiore, toccarono una corda la quale doveva avere un'eco infallibile nel cuore del soldato, quella di rientrare nella patria a vedere amici e parenti, di ritornare alla vita accostumata, ai luoghi già noti, agli aspetti più cari. I soldati cedettero: cedettero perché essi non conoscevano quella ignota dell'Italia cui sentivano per la prima volta nominare, ma conoscevano troppo la patria, assuefatti a considerarla nel proprio paesello sotto il proprio campanile: cedettero, perché le parole libertà e indipendenza per essi non avevano senso, mentre erano accostumati alla fascinazione di quest'altre: il re lo vuole: cedettero perché le soavità della gloria erano un solletico impossente per chi avevano abituato a concentrare la delizia ed il dolore nell'ubbriachezza e nella fustigazione. Chi dunque non li perdonerebbe? Ma chi perdonerebbe ad uffiziali infami i quali in faccia al nemico che li provoca, voltano le spalle, e preferiscono di correre a consumare la guerra civile? I loro nomi sono noti, e basta.


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La rivoluzione di Napoli nel 1848
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
pagine 212

   





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