Niun mistero fu rispettato: niun diritto lasciato impunemente violare. La protesta era giornaliera, era permanente. La parola appassionata del Conforti, il dire elevato ed ironico di Avossa, lo stile brillante del Pisanelli, la logica inflessibile dell'Imbriani, la perorazione proteiforme ed incalzante del Poerio, il discorso chiaro e luminoso del Pica, il sarcasmo breve e corrosivo di Spaventa, sconcertarono il governo, l'allarmarono. E quasi questa battaglia a file serrate fosse stata poco, un ultimo atleta giunse, il dotto professore Savarese, che con un discorso vivo e stringente dichiarò Italia essere una nazione, e che, in qualvogliasi parte della penisola i suoi figli nascessero, dovessero dappertutto aver diritto eguale di cittadinanza. Questo era il colpo di grazia che si portava alle ultime idee del medio evo, sì tormentato dal municipalismo, era un cartello gittato all'austriaco, un anatema alla politica croata del governo, un corpo che si guidava alla riscossa, dopo la disfatta di Carlo Alberto; era la teoria dell'unità italiana, idea viva e suprema della rivoluzione, come le scuole primarie all'insegnamento. Messo per tal modo al bando della libertà e dell'Italia, sviscerato in tutti i suoi pensieri, scompigliato in tutti i suoi piani, il ministero si sentiva mancare il terreno sotto i piedi. E benché ogni dì una nuova foglia fosse strappata dall'albero della libertà, esso si riconosceva incompatibile al governo; il soffio dell'opinione pubblica lo respingeva, lo rovesciava.
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