Era una pubblica calamità che portava il germe di un funesto avvenire. Non era l'onta per le armi italiane; l'onore era salvo, e possiamo dirlo ad alta voce ed a fronte levata, era salvo a Goito, a Pastrengo, a Peschiera, a Vicenza, a Colmasino, alle Corone, a Governolo, a Somma Campagna, e sopratutto nelle disastrose giornate di Curtatone e di Montanara, e nelle battaglie di Custoza e di Volta: non era il danno che dalla disfatta rilevava; ma lo scoraggiamento che andava a colpire un popolo giovine, il quale alzatosi confidente ed ardito, aveva generosamente rotte le catene; era la supremazia morale che l'Austria riassumeva. Le fortune della guerra potevansi riaccozzare e ricondurle all'attacco, le perdite con nuovi sacrifizi potevansi riparare; ma era l'irresarcibile squarcio formato nell'opinione di Europa e nella coscienza delle masse, essere l'Austria la fatalità inesorabile che deve gravitare sull'Italia, e che attaccarla è perdersi. Non furono forse queste considerazioni che attiepidirono l'Inghilterra, e fecero a Cavaignac ritirare la parola di Lamartine? Non furono forse queste considerazioni che inaridirono affatto l'anima del Papa, già avvelenata e prevaricata; che raddoppiarono l'energia di distruzione del re di Napoli, l'ipocrisia del Gran Duca di Toscana? I principi cantarono osanna, e rifrugarono in tutti i ripostigli del blasone e nei vuoti tesori degli stati nostri i dobloni per festeggiare Radetzky: i popoli presero la gramaglia. Era il primo anello di una catena di sventure che doveva finire col massacro di Ungheria e la resa di Venezia!
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