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      La sensazione che produsse nella nazione napolitana fu terribile; e terribile tanto più, perché il disastro arrivava impreveduto ed avviluppato di mistero. Se si fosse proclamata semplicemente la disfatta, ciascuno avrebbe considerato che le sorti sul giuoco della guerra non sono sempre prospere, e che col bollettino del domani potevasi favellare di vittoria. Ma si parlò di tradimento, e questo ci sgomentò. Imperciocché il danno non era solo del momento, ma duraturo e proiettato sull'avvenire: non colpiva solamente le affezioni attuali, uccideva le speranze. Il governo raddoppiò di arroganza. E se qualche giorno prima si sarebbe contentato semplicemente di sbarazzarsi di un nemico, di un accusatore ardito ed indefesso fino alla petulanza, dopo la nuova della vittoria dei nemici d'Italia, quel ministero che aveva protestato essere italiano, volle vituperare la camera, e scioglierla in mezzo al grido d'indignazione che un popolo fremente metteva fuori. Non era più una misura di governo, ma una vendetta; non era più una necessità politica, ma un'onta.
     
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      41. Per accrescere le file dell'armata, il re aveva vuotato le prigioni e le galere. Aveva fatto grazia ai ladri, ai falsari, agli assassini, per fino ai parricidi, a tutti coloro insomma che avevano violati i diritti sociali ed i vincoli di natura, e ne aveva formato un battaglione, per cui nulla vi potesse più essere di sacro e di venerato, il battaglione della morte. Per crearsi dei partigiani la polizia aveva ruminato per lupanari e taverne, per bische e cantine, e vi aveva reclutato quanto la città produceva di più immondo e di più miserabile.


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La rivoluzione di Napoli nel 1848
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
pagine 212

   





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