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      Tra soldati di linea e guardia mobile i giornali siculi parlarono di centomila e più combattenti! Le città e le strade erano state minate. Le donne delle più distinte famiglie avevano con entusiasmo cooperato agli apparecchi dell'ambulanza, ed erano concorse perfino a dividere col popolo i lavori delle fortificazioni di Palermo e di Catania. Lo spirito avventuroso ed intrepido dei cittadini era provato per una rivoluzione compiuta con tanta perseveranza e con tanto coraggio. I napolitani quindi se non avevano potuto impedire la spedizione, anzi erano stati forzati a pagarla con la sopra imposta, ordinata dal ministero Troya per la guerra di Lombardia, e con un debito di dodici milioni di ducati; i napolitani speravano che gli assassini del 15 maggio sarebbero andati colà a toccare la mercede delle opere loro. Speravano che i siciliani li avrebbero vendicati, e che, attenuate le schiere del re, avrebbero insieme potuto acclamare la vittoria su i rottami del trono di Carlo III. E non lo speravano solo, ma quasi ne gongolavano per sicurezza. Qual colpo di fulmine non fu dunque quando il telegrafo del general Filangieri annunziò, con un laconismo spaventevole: Messina è a noi! Il messo non mentiva. Il generale aveva per modo concertate le cose, che impossibile sarebbe stato resistere. La cittadella da un lato, di fronte la flotta, dall'altro capo un corpo di artiglieria, in Europa a niuno secondo, da per tutto soldati, che fatalmente per causa infamissima spiegarono coraggio senza misura.


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La rivoluzione di Napoli nel 1848
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
pagine 212

   





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