I liberali quindi erano guardati in cagnesco, e considerati come briganti e come atei. L'abbiezione in cui la plebe era stata tenuta mai sempre faceva considerare qualunque proprietario, e direi quasi qualunque uomo che portava scarpe ed abito, come un aristocratico. Essa se ne credeva separata da un abisso, e gli si avvicinava sempre con una specie di devozione servile nell'apparenza, con odio implacabile nel cuore. Quando però vide che dal grembo degli esseri più favoriti della nazione essa non era esclusa, che era considerata ancora come eguale, che poteva seder tra le alte classi ed aver voto, un cataclisma successe nel suo spirito. La rivoluzione non fu più un logogrifo per essa. La rivoluzione significava che essa aveva cessato di esser paria nella società: che un avvenire schiudevasi ancora per essa: che poteva aspirare ad uscire dai triboli della sua esistenza attuale: che più non era obbietto da destare ribrezzo e disgusto: che a fianco ai doveri, che fino allora le si erano assegnati esclusivamente, a fianco ai doveri aveva ancora dei dritti, ed una forza per farli valere, una voce per protestare. La rivoluzione significava che essa era sovrana, che, angelo decaduto fino allora, riacquistava la luce e la vita. Non vi era dunque bisogno di altro. Più che tutti gli apostoli, più che tutte le logiche, l'elezione di un loro fratello alla deputazione l'aveva convertita. Il ministero si sentì ferire nel cuore. Il giorno della riapertura del parlamento arrivò. Il governo, temendo dell'ebbrietà del popolo, aveva spiegato un lusso di precauzioni che sono la risorsa disperata de' governi vacillanti.
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