Così non era più che un rudero.
Le cinque del mattino lo trovavano sempre in piedi, passeggiando o piuttosto correndo a passo di carica nella sua sala, le mani dietro la schiena, zufolando non so che, pensando a Dio sa chi. Un osservatore avrebbe indovinato senza sforzo che sotto il cranio di quell'uomo nelle pieghe le più recondite del suo cuore c'era qualche cosa che si agitava eternamente.
Chi gli avesse frugato sul petto, sotto una camicia di tela da vele, avrebbe veduto che il vecchio soldato vi ascondeva uno scapolare, cui baciava la sera quando si coricava e ribaciava la mattina levandosi. Ma gli era proprio uno scapolare?
Il barbiere si presentò, dunque, all'invalido. Mastro Zungo gli voleva bene: primo, perchè istruiva suo figlio, secondo, perchè lo invitava spesso a bere dell'acquavite, del rhum, del cognac, del gin, o checchè altro; terzo, perchè non lasciava crescere pelo sul viso, e sopratutto perchè dava a succhiare a sua moglie della radice di nicoziana.
Il viso di quell'uomo, però, faceva arrabbiare il barbiere. Bucherato, gibboso, cincischiato qua dalla mitraglia, là dai bernoccoli, altrove dalla sciabola o dalla baionetta, gli era impossibile di raderlo, senza tigrarlo di nèi, di tela di ragno, come gli spruzzi di inchiostro zebrano lo scartafaccio di uno scolaro.
Quando il barbiere ebbe deposto tutti i suoi utensili, schiaffeggiato il viso del sergente, giacchè quel bravo mastro Zungo non insaponava con un pennello ma colla mano; quando ebbe fissata l'attenzione del suo uditore, perchè, senza accorgersene, il sergente era un incorreggibile interruttore, e se parlava adesso correva il rischio di vedersi tagliata la pelle della faccia, mastro Zungo principiò:
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Dio Zungo Zungo Zungo
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