L'aria che si respirava lì dentro moveva nausea.
Vi si sentiva il tanfo di rinchiuso, l'umidità, il grasso condensato delle costolette arrostite sul carbone, ogni sorta di puzza cumulata agli odori della cucina che si faceva in un angolo sur un piccolo seggio. Una delle stanzucce, tramezzate da una impalcatura a cui si arrampicava per una scala mobile, serviva di camera da letto alla vecchia serva di don Noè.
Il sagrestano era piccolo, ma lautamente provvisto di due gobbe. Aveva la testa affondata nel collo, il collo nel torace, il torace nell'addome, il tronco cascante sulle cosce, le cosce confuse colle gambe, le gambe sprofondate in due enormi stivaloni alla scudiera, regalatigli da un abate, che nell'inverno vestiva da secolare.
Don Noè rassomigliava ad un cannocchiale rientrato. Di più, egli era calvo: aveva la fronte protuberante, gli occhi vivi, le labbra grosse, la faccia gialla, il naso venato in rosso a zigzag, i denti lerci. E, oltre a tutto ciò, era goloso ed avaro.
Mastro Zungo gli aveva annunziato per lettere la partenza di suo figlio. Don Noè aspettava, dunque, Bruto. Difatti, quattro dì dopo aver lasciato Moliterno, un bel giorno di sole, verso le quattro, Bruto arrivò da suo zio. Il corricolo che l'aveva condotto fino alla porta, aveva fatto venire tutto il vicinato alle finestre, co' suoi cavalli, più ricchi di campanelli che di carne, e coi due cappuccini, che tenevano seduto sui ginocchi questo bel giovanotto, che spirava la vita e la salute.
In meno di due minuti si sparse la voce che era il nipote del sagrestano e donne officiose e tutto cuore - come è in generale la plebe napoletana - precedettero Bruto al settimo piano per annunziarlo a suo zio.
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