Quella megera, grande, gialla, gli occhi iniettati di sangue e di bile, le labbra grigie, con qualche ciocca di sucidi capelli in disordine, si avanzò, o piuttosto balzò, verso sua figlia, ghignando colle unghie protese in avanti, coi lineamenti sconvolti. Faceva orrore. Alla vista di Bruto indietreggiò, poi, di uno slancio, si abbattè sulla finestra e la chiuse.
Bruto rimase atterrito. Il sangue gli affluiva al cuore. Non respirava più.
Seguì un istante di silenzio. Poi egli udì un grido acuto. Nel punto stesso, la porta della sua stanza s'aprì e una voce insinuante domandò:
- Zia, avreste per caso una bragia per accender la pipa?
Bruto si voltò e vide don Gabriele che gli faceva dei segni.
Tartaruga gli diede la bragia e don Gabriele aggiunse:
- Grazie, la vecchia, e se ne andò.
Bruto restò un momento ancora ad ascoltare, poi lo seguì sul pianerottolo. Don Gabriele gli disse a bassa voce:
- I cani hanno trovato le traccie.
- Di chi?
- Zitto!
CAPITOLO VI.
I cani di don Gabriele.
Don Gabriele condusse Bruto in un caffè, via Speranzella. Entrò pel primo e sedette ad un tavolino, poi picchiò col suo grosso bastone, gridando in pari tempo:
- Bottega! bottega!
- Ai vostri ordini, Eccellenza, rispose dal fondo della bottega un garzone in maniche di camicia, senza calze ed in pantofole.
- Imbecille! gridò don Gabriele, offeso probabilmente da quel titolo di Eccellenza. Un bicchier d'acqua senza zucchero, del fuoco e il Poliorama.
- Subito, Eccellenza, continuò l'imperturbabile cameriere.
- Bestia! questo per me.
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