Il fatto sta che don Noè amava quei crostacei e ne mangiava molti. Da parecchi anni ne faceva impunemente sua delizia. Ma sia che questa volta avesse passato la misura, sia che avesse commesso l'errore di aggiungervi una gran scodella di fagiuoli, sia per altra causa, don Noè si trovò sotto le strette della digestione.
Don Noè, non sentendosi bene, non era andato alla chiesa. Il parroco l'aveva fatto chiamare, avendo da comunicargli nientemeno che una lettera dell'arcivescovato. Sapendo che il sagrestano era ammalato e trovandosi col suo fratello, lo pregò di andarlo a visitare.
Il dottor Tibia si recò subito da don Noè, e lo vide contorcersi, raggricciandosi sopra una sedia, mentre Tartaruga restava indecisa se egli facesse delle smorfie per celia o sul serio.
I dolori colici per altro crescevano, la fisonomia dell'ammalato si alterava sempre più, s'aggomitolava sopra di sè, come una pergamena sui carboni ardenti; aveva gli occhi scintillanti, la bocca aperta, la lingua fuori. Visto il dottor Tibia, gridò:
- Dottore, dottore, presto soccorrete il povero sagrestano di vostro fratello, mandate al diavolo le mie lumache.
Il dottore comprese tutto. Ma aveva più voglia di smascellar dalle risa che aiutare il povero paziente.
Tartaruga si segnava dalla testa ai piedi come faceva Luigi XI. Finalmente il dottore scrisse una ricetta: decozione di china con tintura di gluton e mandò Tartaruga a prenderla, mettendosi intanto al capezzale dell'ammalato fino all'arrivo di Bruto.
Trattandosi del sagrestano della parrocchia, lo speziale troncò a mezzo la storiella d'un beccaio che aveva battuto sua moglie, da cui doveva ricavare i numeri del lotto, e preparò la medicina.
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