- Ma, alla fin fine, cosa si vuole da me? non sarei io neppur libera di morire, di uccidermi, di lasciarmi uccidere? So benissimo che quell'idiota di Tibia mi assassina e lo conservo espressamente per questo. Siete soddisfatto, ora?
- Non è solamente il corpo, allora che avete ammalato, signorina; il vostro spirito è ancor più sofferente; o meglio, voi avete una ferita al cuore che sanguina.
- Al cuore? che facezia! Ascoltate questo, signore: io aveva dodici anni quando madama Ilemas, la maestra di francese della mia scuola, mi disse: "Cara figliuola mia, la felicità della vita d'una donna si riassume in una certa dose di atrofia, più o meno grande del suo cuore: più la donna sopprime di questo organo malefico e più ella è felice." Da allora in poi non ho mai saputo se il posto del cuore sia a dritta o a mancina; se sta nei miei stivaletti, o nel mio petto.
- Voi vi calunniate con compiacenza, signorina. Non si confessano di queste cose, quando le sono vere.
- Ho la febbre, ecco tutto. Non val la pena che mio padre s'inquieti e disturbi la gente. Tibia è sufficiente per quello che ha da fare. Non è mestieri mettersi in due per uccidere una donna.
- Se è un suicidio che meditate, uno solo è anche di troppo, avete ragione, ed il mio posto non è qui.
- Un complice v'imbarazza, dunque? disse Cecilia provando di sorridere.
- La vittima mi fa pietà.
- Diffido di questa parola pietà. Nella bocca di un prete la sopporto già con impazienza; in quella di un medico la è un oltraggio. Contentatevi della bugia della scienza, signor dottore.
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Tibia Ilemas Cecilia
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