Bruto non aveva nessuna ragione per rifiutare.
Si era nel novembre, dalle giornate corte e piovose. La tristezza stava nel cielo e nei cuori. A sei ore scendeva la notte. I tre convitati sedettero a tavola nel gabinetto di Cecilia.
Avviluppata in una veste da camera di casimir bianco, imbottita di seta color di rosa, la testa ricoperta da una cuffia di trina molto leggiadra, la vita stretta da un cordone di tela nero e oro, quella ragazza era vezzosissima. Il suo pallore risplendeva. I suoi capelli erano ricoperti da una rete, che stentava a tenerli tutti e lasciava sfuggire alcuni ricci ribelli che scendevano sul collo. Il languore dei suoi occhi era inebbriante.
Cecilia non mangiò quasi niente. Il conte mangiò e bevette per due. E Bruto, quantunque fosse in estasi dinanzi alle mani, alla posa, all'insieme della giovine convalescente, tenne testa perfettamente al conte.
Finito il pranzo, si andò a prendere il caffè nella stanza di Cecilia, intanto che si sparecchiava nel gabinetto. Poi, siccome essa era un po' stanca, il conte ed il dottore vi ritornarono soli per fumare, prendere il thè e conversare. Il vino di sciampagna rendeva il conte molto loquace, a quanto asseriva egli stesso. Il fatto sta che Bruto si sentiva tutto intenerito, sorrideva al genere umano con aria di protezione; avrebbe sporto la mano ad una tigre per augurarle il buon giorno. L'universo non aveva che delle pose, una bocca, delle pupille, come quelle di Cecilia. Messer Bruto aveva lo sciampagna umanitario senza saperlo; poichè era, m'immagino, la prima volta che ne beveva.
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