Bruto assicurava a sè stesso ch'egli non era stato ebbro e che, tutt'al più, egli erasi disubbriacato alle prime parole di quella singolare cicalata.
Ma non sapeva precisamente cosa pensarne quando riandava nella sua mente le proposte, gli esempi, l'invito a riflettere, che gli erano stati fatti dal conte. Sposare Cecilia? lasciarla nella di lei casa? vivere in casa propria? un compenso? un matrimonio a scrittura doppia? una società? il marchese e la marchesa di Filippo V...!
- Bah! propositi di vino di sciampagna, esclamava egli, convinto; eravamo ubbriachi ambedue.
E Bruto si confermò in questa opinione quando di ritorno dalla visita alla sua giovane cliente, constatò ancora una volta la bellezza di Cecilia, il lusso che circondava il conte, il silenzio assoluto conservato da costui sopra le chiacchiere intemperanti della vigilia, l'assenza della dama velata, l'atmosfera fredda, degna, pudica di quella casa, il dolore profondo di don Ruitz per la sciagura di sua figlia.
Nondimanco, l'informe sogno del colloquio della sera precedente gli pesava sullo spirito non come un incubo, ma come un dubbio, come un problema a risolvere, come un caso di coscienza da sciogliere.
Bruto ci riflettè. Fu preoccupato tutto il giorno; ma si guardò bene dal chiedere la soluzione dell'equazione al colonnello, che l'avrebbe tagliata netta con una parola: un'infamia.
Gli è che il colonnello non spilluzzicava le questioni morali; le sciabolava come cosacchi o prussiani. La sera, Bruto propose la storia del marchese di Filippo V a don Gabriele, come un soggetto di dramma.
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