Il colonnello era ridivenuto ciò che si era mostrato in Francia e nell'esercito: un uomo, un carattere, uno spirito.
Alcuni compagni della carriera militare, che non avevan mica rinnegato il passato, gli fecero festa, i rinnegati, essi stessi si affrettarono a rendergli buoni uffici a sua insaputa. Ed uno d'essi, in effetto, fece ritirare dal ministro della polizia l'ordine che confinava il colonnello in provincia e lo lasciava vivere immolestato in Napoli. Un altro gli procurò, da un libraio, la traduzione di una Storia di Napoleone. Un giornale letterario, redatto da un uomo di lettere eminente, ridotto a vender tabacco per vivere, il signor Borsieri, gli confidò la critica letteraria e teatrale. Il generale Florestano Pepe, per prudenza, gli aveva perfin consigliato di svestire l'uniforme di sergente e prender l'assisa borghese. Ma il colonnello su questo punto fu intrattabile; suo costume era una protesta contro la condotta infame dei Borboni; il suo uniforme era la gogna di una corte, di un regime, di un sistema, di uno Stato; il colonnello si considerava come quegli uomini che vanno per le strade di Londra portando sul petto o sulle spalle degli annunzi: egli, colonnello dell'esercito francese, egli camminava per le vie di Napoli e tutti potevano leggere sul suo uniforme di sergente napoletano: qui una dinastia si disonora!
Un anno era scorso dal suo arrivo a Napoli.
Egli viveva sempre con Bruto, il cui carattere diveniva sempre più cupo, a misura che la sua carriera migliorava.
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