L'ambasciatore di Francia a Napoli, istruito delle pratiche incominciate, insistette per la messa in libertà del colonnello.
Il ministro degli affari esteri del re Ferdinando opinava che non valeva la pena di attaccar briga col gabinetto francese per un uomo, a proposito del quale la stampa avrebbe fatto un diavolerio, appena la storia se ne fosse divulgata.
Il re rispose: che il delitto essendo stato commesso nei suoi dominii, la legge doveva avere il suo corso e il giudizio il suo effetto.
Ora il duello era punito coi lavori forzati. Il re odiava il colonnello Colini, di cui gli avevano raccontata la storia; era ostinato, si millantava della sua indipendenza e faceva le mostre di sprezzare la Francia.
Il caso era grave.
La Russia e l'Austria appoggiavano il re.
L'ambasciatore di Francia, mediocremente soddisfatto della risposta di Sua Maestà e della benevolenza dei suoi colleghi, risolse di prenderla sur un tono alto con questa Corte di Napoli, che trattava in maniera così infame i soldati della Francia, gli eroi di Napoleone.
Egli chiese, in conseguenza, che il giudizio fosse pronunziato immediatamente. Esigette ed ottenne che l'accusato fosse trasportato in una prigione più sana, perocchè il colonnello era già ammalato e minacciato di tifo. L'ambasciatore scelse in seguito uno degli avvocati più considerevoli del foro di Napoli, don Terenzio Siniscalchi, il quale da semplice commessuccio, spinto dalle brezze della Corte, aveva percorso rapidamente il cammino ed era giunto al culmine della fortuna.
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