Le domande dell'ambasciatore furono mal viste, poco gradite, ma si diè loro soddisfacimento.
Il colonnello steso sur una barella fu trasportato alla prigione di San Francesco.
Lo cacciarono in un dormitorio, ove erano già una quarantina di persone civili, vale a dire che potevano pagare al direttore della prigione un po' di libertà e di benessere e si lasciavano taglieggiare da lui senza lagnarsi.
Da otto giorni era arrivato in quella sala un notaio falsario, dicevasi, il quale, mediante una considerevole somma, si era redento dall'orribile carcere della Vicaria.
Due giorni dopo, quel notaio padroneggiava la sala ed i suoi compagni agghiadati di terrore. Egli, pertanto, parlava poco, non aveva che un gesto famigliare, dietro al quale un uomo cadeva morto o ferito. Passeggiava lentamente, fumando la pipa e squadrando di uno sguardo rosso di sangue chiunque osasse fissarlo in faccia. Portava vestiti convenienti ed un berretto di pelle di lontra sul capo. Dava denari, senza contare, a chiunque ne avesse bisogno, ai carcerieri e a chi lo serviva.
Quando nei primi giorni un ex-banchiere gli domandò chi si fosse e di che delitto la giustizia lo accusasse, e' non rispose che alla prima domanda, e disse:
- Io sono il reverendo abate di questo luogo.
Lo si ebbe per detto; e da quel giorno non lo si addimandò altrimenti che il reverendo abate.
Appena il colonnello si fu coricato sul suo strapuntino, l'abate gli si avvicinò e alla sua volta gli chiese il suo nome e il delitto. Il colonnello rispose laconicamente e si volse, dall'altra parte dicendo: "E voi?
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San Francesco Vicaria
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