Fui presentato ad un notaio, il quale me la trovò senza troppo taglieggiarmi. Restammo in relazione di semplice saluto. Quando c'incontravamo: "Servitor umilissimo, signor conte! - Buon giorno, don Crescenzio!" ed ognuno tirava dritto per la sua via.
Un giorno, io passeggiava alla Villa, con uno stuzzicadenti alla bocca per rimpiazzare il pranzo, quando vidi don Crescenzio trottar dietro ad una cameriera inglese, la quale non lo comprendeva punto, perchè il gonzo notaro non le parlava la lingua delle sovrane. Don Crescenzio era galante. Egli arrossì nel vedermi. Io sorrisi. E' si ricordava della storia del mio processo e delle mie sciagure.
Egli era a sua volta, alla pista di don Terenzio, cui il governo aveva mandato procuratore del re in Sicilia. Me gli avvicinai. Egli s'informò de' miei affari, sbirciando di un occhio esperto i miei tisici vestiti. Gli risposi ridendo:
- Affè di Dio, don Crescenzio, credo che uno di questi giorni andrò a chiedervi un posto di commesso.
- L'avete già, m'interruppe il notaro. Vi prendo a parola. Ho la vettura alla porta della Villa. Venite: vado ad installarvi in casa.
Non glielo feci ripeter due volte. Eccoci in vettura.
- A casa, cocchiere.
Fui ammesso nello studio e mi v'impiantai. Ciò durò due anni. Io era più che uno scrivano pel notaro, era un amico. Osservai, dal secondo giorno, delle cose che mi parvero equivoche. Volli andare al fondo. La curiosità mi ritenne in quello studio. L'abitudine mi fece prender radice nella cosa.
- Ci direte ora, signor conte, interruppe il carceriere maggiore, quale era codesta cosa?
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