Ritornammo a Napoli questa volta.
- Che imprudenza!
Infatti, un giorno m'avvidi che Cecilia pensava svignarsela da quella buona famiglia, ove albergavamo. Le appresi allora che quelle brave persone avevano l'ordine di pugnalarla al primo tentativo di fuga. Questa buona ragione la calmò. Ella mi raccontò allora alcuni tratti della sua storia e mi pregò di lasciare Napoli.
Io non aveva alcun pretesto per contrariarla. Mi recai quindi a Sorrento e presi a fitto delle camere in una famiglia borghese, presso la quale passavamo per milanesi venuti a guarirsi dalla misantropia sotto quel cielo imbalsamato. Condussi meco l'angelo guardiano di Cecilia. Costei non mi perdonò mai il mio amore ed i modi che avevo usati verso di lei. Ma allora io non me ne curavo più che tanto. Avevo rannodati i fili della mia vecchia società e rimesso in su i giustizieri dell'ordine pubblico.
- Infatti sarebbe stato un peccato il lasciar perire un'istituzione così ammirabile, osservò il carceriere in capo.
- Oh certo! riprese il conte. Solamente io non era più allora il presidente.
Durante la mia assenza, i dissidenti avevano preso il disopra e perfezionata la mia opera. Ciò non impedì che io non chiedessi di essere ristaurato nella pienezza dei miei diritti. Mi si rispose che il nostro governo era elettivo e non ereditario, che noi non eravamo dittatori a vita, ma consoli, e che tutto quello che si poteva fare per me, per i miei meriti, i miei servigi, la mia abilità era di associarmi al governo. Io mi credetti offeso e risposi come quel generale dei gesuiti: Sint ut sunt, aut non sint! vale a dire: o presidente della repubblica, o nulla.
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