Quelli che sanno quel che sia la tenerezza di una madre e l'affetto di un buon fratello, potranno giudicare con che pena si staccarono dal mio collo e in che modo finì questa visita dolorosa e pietosa. Li vidi partire inconsolabili, piangendo lagrime da intenerire le pietre. Ne fui commosso, ma feci l'intrepido e ritornai nella mia camera pregando Iddio di fortificarmi, di armare di costanza il mio cuore, d'inspirarmi qualche espediente ingegnoso per ben condurre a fine quel che meditavo.
La difficoltà più terribile che faceva titubare me ed Alfonsi era quella di rompere un muro più grosso di sei piedi. Avevamo per soli strumenti un chiodo, le forbici ed un temperino; ma non bastavano certo per fare un buco tanto grande che ci potesse passare una persona. Per avere un ferro più forte e più lungo senza dar sospetto, mi venne in testa una piacevole idea.
Era costume che, tutte le settimane, il primo padre compagno dell'Inquisitore visitasse i prigionieri per vedere se mancava lor qualche cosa e per dare con buone parole una triste consolazione ai poveri afflitti. Un giorno venne nella nostra camera a fare la sua visita solita. Io lo tirai in disparte, come in gran segreto e gli dissi:
- Padre mio, io vorrei supplicarla di una grazia.
- Dimandatemi quel che volete - egli rispose. - In che cosa posso esservi utile?
- È molto tempo - ripresi io - che ho una scesa, cagionatami dalla tortura che ho sofferto, e finora la vergogna m'impedì di parlarne. Ma poiché il male può diventare più pericoloso se non mi curo, la prego di farmi fare un cinto perché l'ernia non cresca.
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Iddio Alfonsi Inquisitore
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