La cosa riuscì tanto bene che uno dei carcerieri ci disse:
- Che diavolo di polvere fate? - E non badò ad altro.
Finalmente giunse il giorno fatale, il 9 novembre 1693, dedicato in Roma alla Basilica del Santo Salvatore.10 In quel giorno non mi diedi ad altro che a preparare quel che giudicai necessario per l'evasione. Prima di tutto con due tovaglioli abbastanza grandi, che avevamo per asciugarci le mani, feci una bisaccia come quella che i monaci portano sulle spalle quando vanno in cerca, per mettervi dentro certe mie robe e alcuni miei lavori che volevo conservare per venderli, se ne avessi avuto bisogno. Nel dopo pranzo mi tagliai un vestito come portano i Romiti del convento di S. Maria di Porta Angelica, fatto colle due coperte di lana bianca de' nostri letti, le quali da quasi due anni conservavamo nei pagliericci, una io, l'altra Alfonsi. Cucii anche i lenzuoli assieme per guadagnare tempo e perché tutto fosse pronto la notte, in modo che non avessimo altro che da tagliare i lenzuoli in mezzo e cucirli pe' capi e farli così abbastanza lunghi per l'altezza di 80 piedi, dalla quale dovevamo calare. Tutto questo fu finito in meno di quattr'ore.
Giunta la notte, dopo la visita ordinaria dei carcerieri, Alfonsi ed io ci promettemmo fraternità, obbligandoci a stare uniti quando per la grazia di Dio fossimo in salvo, in modo che quello di noi che avesse trovato da vivere non abbandonasse l'altro. Questa promessa ci confermammo l'un l'altro con solenni giuramenti.
Alzammo quindi per l'ultima volta il nostro edifizio e cercammo di finire l'opera nostra, allargando il buco tanto da potervi passare.
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