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      Ma qui trovammo la difficoltà maggiore, poiché volendo sforzare l'ammattonato di sopra che credevamo di sfondare spingendo solo colla testa, trovammo che era quasi impossibile smuoverlo perché proprio in quel luogo avevano messo un vecchio seggiolone a bracciuoli pesantissimo, il quale non lasciava che si potesse sollevare nessun mattone del pavimento. Però lavorai tanto col ferro del brachiere e cogli altri arnesi che, rotto alfine un mattone, trovai modo d'introdurre il braccio nel buco e di spingere un po' da parte il seggiolone. Allora levai cinque o sei mattoni e feci l'apertura grande come desideravo.
      Ciò fatto, scesi dall'edifizio, tagliai per lo mezzo tutti i lenzuoli, cucendoli assieme pei capi, per farne una specie di corda che scendesse sino al piano della strada. Li attorcigliai e li cucii intorno intorno perché fossero più forti e più comodi alla mano. Tagliai quindi i capelli ad Alfonsi e gli diedi la mia parrucca, gettando nella latrina i nostri abiti soliti perché nessuno s'imaginasse come ci eravamo vestiti.
      Avevo preparato due lettere. Una diretta al Papa ed alla Sacra Congregazione, l'altra al reverendo padre Commissario ed al suo Compagno. Nella prima supplicavo la Santità Sua e la Sacra Congregazione affinché si degnassero di perdonare il mio attentato. Facevo loro presente che avendo chiesto molte volte, per carità, un poco di larghezza per respirare, invece di darmi questa grazia, m'avevano ristretto; e che durante quattro anni e più di carcere essendo stato, mille volte tentato dal demonio di togliermi la vita (come era accaduto ad altri), piuttosto che ridurmi a tale funesta estremità, avevo implorato la misericordia di Dio perché m'assistesse e mi desse la forza e il coraggio di tentare la fuga col pericolo della vita.


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Le avventure di Giuseppe Pignata fuggito dalle carceri dell'Inquisizione di Roma
di Giuseppe Pignata
pagine 170

   





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