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      Il suono di quella voce funesta, ferendomi le orecchie, spaventava e trapassava il mio cuore. Non potrei dire mai le pene, gli spaventi, le inquietudini e lo stato miserando in cui allora mi trovavo. Non avevo né mangiato né bevuto. Un poco di pane e d'arrosto, resti del mio ultimo pranzo, li avevo messi a parte nella bisaccia per l'indomani. Avevo faticato colle mani e collo spirito per dieci. Senza iperbole, era uscito un secchio di sudore dal mio corpo ed ero così spossato, così abbattuto, così debole che non chiedevo più a Dio la grazia di poter fuggire, ma una sola goccia d'acqua per bagnarmi le labbra e poi la morte; tanto la mia sete era ardente! Il cielo prodigava l'acqua, poiché pioveva a catinelle, ma io non ne potevo profittare, poiché cadeva nel fango o nella polvere e non si poteva bere. Ero morto di fatica, non avevo più forze, le gambe mi tremavano, il cuore mi batteva forte, avevo le fauci aride e il respiro così corto che quasi mi mancava. L'apprensione che mi dava quel che avevo fatto, la paura d'essere arrestato di nuovo, la disgrazia del mio povero compagno, non ostante il sospetto che mi davano le sue grida, mi riempivano la fantasia di idee terribili e tristi. Ma quel che mi faceva perder coraggio era la veste da romito, già tanto inzuppata di pioggia che il suo peso mi curvava le spalle e finiva per tormi le poche forze che mi rimanevano, tanto che non potevo più fare un passo. In questi estremi, per non soccombere affatto alla debolezza, risolsi di sbarazzarmi d'ogni ingombro e cominciando a salire la via che va al Pidocchio (osteria che dà il nome a tutto il quartiere e che ha quell'insegna) vidi un fienile aperto dove gettai la bisaccia con tutto quello che c'era dentro, senza risparmiare il poco pane e la carne che mi dovevano nutrire.


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Le avventure di Giuseppe Pignata fuggito dalle carceri dell'Inquisizione di Roma
di Giuseppe Pignata
pagine 170

   





Dio Pidocchio