Canta Omero che Polifemo, ciclopo altissimo e fortissimo, viveva in un antro di Sicilia cibandosi di carne umana. Ulisse, reduce da Troja, balzato dalla tempesta sui lidi siciliani, cadde con dodici de' suoi compagni in mano a questo cannibale, il quale sei di essi mangiò, minacciando di fare altrettanto del loro duce e degli altri compagni. Ulisse ubbriacollo, e poi con un grossissimo palo bruciato gli forò l'occhio. Polifemo, già cieco, trascinossi brancolando alla bocca dell'antro, cui egli solea chiudere con enorme masso, e attese che coll'uscire del gregge al nuovo giorno uscisse pure l'audace che avealo accecato. Ma Ulisse più accorto di lui usò lo stratagemma di legare tre volte di seguito tre montoni, e sotto a quello di mezzo, uno dei suoi compagni: ed egli si attaccò sotto ad un ariete nascondendo le braccia in mezzo alla folta lana; onde fu elusa la vigilanza dell'immane mostro, disperato di non esser riuscito a vendicarsi di tanto danno125.
Omero dice «mostro» Polifemo; in Erice è un animale che fa paura. Ulisse avea approdato nell'isola dopo una fortuna di mare; i nostri fraticelli, evidentemente nomadi perchè questuanti, smarrirono la via e si misero per un sentiero che li condusse alla grotta. Entrambi i due mostri sogliono turar l'antro, entrambi accecati ne rimuovono a tentoni il gran masso, per ghermire entrambi il temerario feritore, che nel mito e nella novella ricorre ad uno stesso espediente. — Per chi cerchi nelle novelle il simbolo, l'allegoria, troverà in questo la lotta del bene col male, della luce colle tenebre: troverà anche di più: la vittoria del piccolo eroe, del debole virtuoso sopra il mostro prepotente.
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