Renato ne pianse la perdita ed allorquando il tempo ebbogli guarito il lutto del cuore, seguendo le proprie inclinazioni s'unì in matrimonio con una giovinetta di nobile casato milanese e stabilissi nella casa de' suoi parenti.
Alberto invece divenuto coll'età superbo e malvagio chiese al fratello la parte spettantegli dell'asse paterno e ricco di vari milioni ritirossi in un palazzotto sul corso di Porta Tosa(1) ove circondato da servi corrotti menava una vita dissoluta e libertina rotto ad ogni eccesso, ad ogni turpe nefandità.
CAPITOLO III.
Ahi, misero! t'han guasto e scoloritoLascivia, ambizion, ira ed orgoglio
Che alla colpa ti fero il turpe invito!
MONTI.
Siamo a Porta Tosa precisamente nel palazzo del giovine conte Alberto Sampieri.
È quasi mezzanotte.
In un'ampia stanza che serve nel tempo istesso di anticamera e di sala d'arme stanno raccolti intorno ad un tavolino quattro uomini che con un mazzo di carte ed un fiasco di vino passano il loro tempo giuocando e bevendo allegramente.
Vestono tutti la livrea e dalla sua uniformità si comprende come appartengano ad un medesimo padrone.
Sono i quattro servi di casa Sampieri.
Se si dovesse giudicarli dal volto non si potrebbe al certo dar di loro un giudizio lusinghiero; sebben giovani ancora portano scolpite in fronte le traccie del vizio, del disonore, del delitto.
Il maggiore di essi, conta all'incirca trent'anni.
È piccolo e robusto di corpo; una folta barba gli nasconde quasi tutto il volto, un volto da patibolo, due occhi neri pieni di malizia brillano sotto la fronte ampia, sede d'un ingegno svegliato al male e fecondo d'abominii.
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