Lo Stato che era appannaggio del sovrano supremo, [7] nell’amministrazione e nel governo interno non differiva dagli altri; solo aveva un ufficio per gli affari esteri, il quale dirigeva le faccende e le relazioni di esso Stato coi dipendenti e quelle de’ diversi Stati fra loro, affinchè tutto procedesse secondo la convenzione stabilita.
Siffatto ordinamento, in apparenza forse eccellente, poteva soltanto mantenersi, se la gelosia, l’ambizione, la prepotenza non avessero mai a commovere gli animi. Ma queste passioni, che guidano invece troppo spesso le azioni umane, non tardarono a produrre in Cina frutti di molte guerre intestine.
I principi feudatari più abili o più arditi, poste in dimenticanza le antiche leggi che vincolavano gli Stati confederati, non si curarono d’altro che d’accrescere i loro possedimenti e di salire a maggior potenza. La forza prese il posto del diritto; e i principi più inetti o non fortunati, vedevano di continuo impiccolirsi i loro Stati, per l’ingrandirsi di quello d’alcun prepotente vicino. A poco a poco i più di quegli Stati, scemati e indeboliti, perirono; e non rimasero che i forti a lottare fra loro. Il fine della lotta era il conseguimento dell’autorità suprema; la quale, in tanta confusione, non era diventata che un nome vano. I principi operavano, in ogni cosa, di lor proprio arbitrio, senza più riconoscere la supremazia di nessuno di essi. Ai tempi di Confucio il disordine era giunto a tale, che questo filosofo ebbe ad esclamare, sconsolato; "I barbari del settentrione e dell’occidente hanno i loro capi; [8] solo il popolo cinese non ha più sovrano che lo governi.
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