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      Io non ho la pretesa di supplire a siffatta mancanza; ma mi sembra che osservando il fatto sotto un aspetto diverso da quello che comunemente si osserva, qualcosa di diverso si verrebbe altresì a concludere. Se per esempio lasciamo da parte il linguaggio dei filosofi e degli storici, e prendiamo in prestito invece il linguaggio degli economisti, mi sembrerebbe di poter affermare che la civiltà di un popolo consiste nel lavoro di cui esso è capace, e nel prodotto utile che sa trarre da quel lavoro. Ogni animale che è sulla terra consuma una quantità più o meno grande di quel che la terra gli somministra; ma nulla produce egli di utile a gli altri individui della sua specie, e di durevole; l’animale consuma e non produce; e il selvaggio è in pari modo un consumatore improduttivo sulla terra. La vita dell’animale e quella del selvaggio scorrono senza quel lavoro, il cui frutto è quel complesso di fatti durevoli, pei quali un’entità collettiva si fa conoscere, conserva memoria di sè e la tramanda nel tempo. Una razza, una specie, una società [44] può così sparire sulla superficie del globo, senza lasciar traccia che la ricordi. Non così le razze superiori, dalle quali sono uscite tutte le società capaci di una cultura in qualche modo progredita. In esse l’aggregato lavora pel comune incremento: consuma, ma produce in compenso un patrimonio, che non va perduto nemmeno quando l’aggregato decade e perisce. Il concetto che riguarda l’uomo come produttore d’un complesso di fatti, che perdura, s’accresce di continuo, e forma parte integrale della composizione del mondo è particolare alle dottrine sociali e filosofiche dei Cinesi: secondo essi il cielo, la terra e l’uomo sono i tre fattori dell’universo.


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La vecchia Cina
di Carlo Puini
Editore Self Firenze
1913 pagine 246

   





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