Il campo non poteva nè vendersi, nè ipotecarsi, nè affittarsi. Ts’in hwan-ti invece pensò altrimenti; e stabilì: la terra è del sovrano, e il sovrano può disporne come meglio crede pel pubblico bene. Esso vendette le terre; e dette potestà di compra e vendita; le terre diventarono possesso privato.
Già innanzi il re Tsin Shi-hwan-ti, il principio di non limitare la proprietà territoriale, e di lasciar libero l’agricoltore della proprietà assoluta dei campi, aveva trovato un’utile applicazione. Narrano infatti gli storici, che Shang-yang, ministro di un principe dello Stato di Ts’in - quel medesimo Stato che dette poi il nome alla dinastia che regnò su tutta la Cina - circa 360 a. C., avendo notato come i dominj del suo sovrano fossero poco popolati, rispetto all’estensione del suolo, così che le terre non davano, per mancanza di braccia, tutto il prodotto che avrebbero potuto dare, indusse gli abitanti di uno Stato vicino, [95] esuberante di popolo poco atto alle armi, ma abile agricoltore, a emigrare, promettendo loro terra quanta ne abbisognassero e quanta volessero: la qual cosa ebbe ottimo effetto. Imperocchè, mentre gli abitanti dello Stato di Ts’in, esperti soldati e poco atti a’ lavori campestri, difendevano i confini, e sterminavano i nemici di quel paese, tutte le terre di esso assiduamente coltivate da’ nuovi venuti, produssero copiosissima ricolta; e lo Stato di Ts’in diventò ricco, prospero e forte(44).
Per tal modo s’abbandonò a poco a poco, in questo principato, il costume di concedere all’agricoltore una quota determinata di terra inalienabile, il cui solo frutto era proprietà privata e trasmissibile; e si cominciò a dar facoltà di comprare quanta terra si volesse, e la facoltà di venderla quando stringesse il bisogno.
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